Produttività e sovraccarico

Premetto che liquidare in una pagina un tema così controverso qual è la diatriba tra la necessità di essere produttivi e il sovraccarico -e, nella sua degenerazione, lo stress da lavoro che ne può scaturire-, è pura illusione. Ne siamo colpiti un po’ tutti: imprenditori, dipendenti, liberi professionisti; e il nostro lavoro ci appare, d’improvviso, non più affascinante, motivante, gradevole.

Qui voglio prendere in considerazione solo alcuni aspetti che possono fare la differenza tra atteggiamenti efficaci, che ci consentono di sopportare con favore grandi carichi di lavoro, e atteggiamenti distruttivi.

1.       Il primo, tra questi ultimi, è l’accentuata sensibilità nel notare ciò che non va negli altri. Questo atteggiamento ci conduce alla critica continua verso tutti e tutto: ebbene, quando si notano le mancanze altrui si è disonesti verso se stessi; viceversa, accettare di avere un problema (personale) per osservarlo da punti di vista differenti dal proprio è il primo passo per risolverlo.

2.       Il secondo è quello per cui “so fare tutto -o so fare meglio- io”: tipico di molti piccoli imprenditori che hanno ahimè già raggiunto la massima espansione possibile (ma si illudono di poter fare di più pur continuando con ormai vecchie azioni di successo). Comportarsi come se in azienda esista un “generale” e tutti gli altri semplici “soldati”, senza alcuna delega, porta alla conseguenza che i soldati… fanno i soldati (eseguono senza prendersi responsabilità). Così il nostro “generale” è sempre sovraccarico… e gli errori aumentano… e il clima peggiora… Rammenta che se lavori troppo è perché lavori male. Innanzitutto TU lavori male, di seguito tutti gli altri…

3.       Poi c’è il lavoratore esperto, l’anziano del gruppo, il braccio destro del capo. La sua posizione “garantisce” alle sue idee un’aurea di infallibilità. Ma essere “tifosi” della propria idea è pericoloso nella misura in cui il “tifoso” prima decide cosa è buono/non buono e poi ricerca le “prove” che supportano la propria decisione. Cosa fa la nostra mente, allora? Troverà tutti i fatti che sostengono la decisione presa, ignorando quelli che invece non la confermano. Per di più, la mentalità da “tifoso” ostacola la collaborazione, perché il “tifoso” della propria squadra esclude tutte le altre.

4.       Infine, ricordiamoci che esiste anche il disorganizzato, quello che trova sempre tutto nel proprio disordine. Non sopravvive molto se dipende da qualcun altro ma, quando ciò non è, allora non c’è niente e nessuno che possa dissuaderlo dal cambiare.

Soluzioni?

1.       Prenditi la responsabilità di un risultato che significa, innanzitutto, ascoltare gli altri per comprenderne il punto di vista, nella stessa maniera con cui si ha voglia di ascoltare i clienti.

2.       Impara ad osservare e ad apprezzare ciò che di buono c’è nel prossimo: un “bravo” e un “grazie” non devono mai mancare durante la giornata di lavoro.

3.       Non sovrastimare le tue capacità (ciò spesso nasconde un’insicurezza di fondo). Può anche trattarsi di presunzione inconsapevole, cioè dovuta ad ignoranza di quali siano gli strumenti adatti per valutare e cambiare una realtà.

4.       Quando il “generale” è in obbligo con se stesso nel tenere tutto sotto la sua personale attenzione, perde efficienza. Di conseguenza, occupati delle cose importanti quando ancora non sono urgenti (riunioni, formazione, pianificazione e controllo, selezione e inserimento di nuovo personale, marketing,…).

In definitiva, per risolvere un problema dobbiamo abbandonare il modo di pensare che ha generato il problema stesso. Invece di pensare che gli altri debbano innanzitutto cambiare il loro modo di lavorare affinché noi possiamo concedere dei benefici (un incentivo, un apprezzamento, il nostro saluto e supporto), consentiamo la “produzione” di nuove idee e diamo ad essi degli obiettivi con la prospettiva di guadagnare tempo.

Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi; pertanto, occorre un piano articolato per giungere ad una qualsivoglia soluzione. Pianificare significa che le attività devono seguire una sequenza precisa affinché possano condurre a risultati attesi. Ma su questa conclusione voglio lanciare un avvertimento: il primo motivo perché i piani non funzionano è dovuto al fatto che non vengono attuati (a partire dai primi passi). Probabilmente, prima dell’aver perso fiducia nel prossimo, si perde fiducia in se stessi, nel senso che non si crede davvero che possiamo agire in modo diverso per cambiare al meglio le cose. Pertanto, se sei giunto in fondo a questo “gioco dell’oca” e non hai tratto per te stesso conclusioni utili, torna indietro e rileggi le quattro soluzioni proposte! Sono valide per tutti.


Visita il sito di Giuseppe Salvato www.nuovidea.it 

CORRELATI