Diabete, cuore e reni: una sola malattia che chiede una nuova medicina
Cinque milioni di italiani con diabete, quasi dieci milioni con problemi cardiovascolari, due milioni con insufficienza renale. Numeri che raccontano una verità scomoda: sono in gran parte le stesse persone, intrappolate in un sistema che le cura a pezzi.
La fotografia emerge dal XXV Congresso Nazionale dell’Associazione Medici Diabetologi, chiusa oggi a Bologna dopo tre giorni di confronto tra specialisti italiani ed europei.
Al centro del dibattito, una sfida che non riguarda solo la medicina ma l’intera sostenibilità del servizio sanitario: questi pazienti assorbono oltre il sessanta per cento della spesa cronica e generano sette ricoveri su dieci.
Eppure continuiamo a curarli come se avessero malattie separate.
“Il problema non sono i pazienti, ma un modello organizzativo superato”, spiega Salvatore Corrao, professore di Medicina Interna all’Università di Palermo e consigliere nazionale AMD.
“Quando una persona con diabete sviluppa uno scompenso cardiaco o un’insufficienza renale, non si tratta di tre malattie distinte ma di un unico processo degenerativo che coinvolge cuore, reni e metabolismo insieme.
Eppure il sistema continua a trattarle separatamente, con esami duplicati, terapie non coordinate e perdite di tempo che possono costare anni di vita.”
La medicina moderna ha ormai dimostrato che esiste un continuum cardio-reno-metabolico, un filo rosso che lega questi tre sistemi in modo inscindibile.
Ignorarlo significa condannare i pazienti a percorsi frammentati, con ritardi diagnostici e sprechi di risorse che pesano tanto sulla salute quanto sui conti pubblici.
I numeri parlano chiaro. Un trattamento multifattoriale intensivo, che considera insieme tutti gli aspetti della malattia, può regalare oltre otto anni di vita in più rispetto alla cura tradizionale.
Non è un’ipotesi teorica ma il risultato di studi consolidati, presentati anche durante la sessione congiunta tra AMD e la Società Europea di Cardiologia.
“Abbiamo farmaci straordinari, nati per il diabete ma capaci di proteggere contemporaneamente cuore e reni“, interviene Francesco Cosentino, professore di Cardiologia al Karolinska Institute di Stoccolma.
“Gli agonisti del GLP-1 e gli inibitori SGLT2 riducono mortalità, ospedalizzazioni e complicanze invalidanti come l’ictus. Eppure sono ancora troppo poco utilizzati nella pratica clinica quotidiana.
Serve un grande sforzo per portarli davvero a tutti i pazienti che ne potrebbero beneficiare.”
Il paradosso è evidente: esistono le conoscenze, esistono i farmaci, ma manca un modello organizzativo in grado di metterli a sistema. Ogni ricovero evitato per scompenso cardiaco vale almeno seimila euro risparmiati al servizio sanitario nazionale.
Moltiplicato per migliaia di pazienti, si parla di centinaia di milioni di euro all’anno, oltre a un guadagno inestimabile in termini di autonomia e qualità di vita.
Per uscire da questa impasse, gli esperti riuniti a Bologna propongono un cambio di paradigma. Non si tratta di inventare nuove figure professionali o strutture, ma di riorganizzare ciò che già esiste attraverso un modello integrato: l’Integrated Care Hub.
Un sistema che mette in rete competenze, dati clinici e percorsi di cura, adattandoli alla complessità di ogni singolo paziente.
In questo scenario, il diabetologo diventa il coordinatore naturale. È la figura che conosce meglio la dimensione metabolica ma è anche capace di dialogare con cardiologi, nefrologi e medici di medicina generale, costruendo ponti tra specialità che oggi faticano a parlarsi.
“Non basta curare il diabete o lo scompenso”, conclude Corrao. “Bisogna garantire continuità, equità e sostenibilità. L’obiettivo finale non è solo allungare la vita, ma renderla dignitosa e autonoma il più a lungo possibile.”
Una rivoluzione necessaria, che parte da una consapevolezza semplice ma rivoluzionaria: il corpo umano non funziona a compartimenti stagni. E nemmeno la medicina dovrebbe farlo.