Farmaco sulle zanzariere: nuova strategia per combattere la malaria
Uno studio dell’università di Harvard guidato dalla ricercatrice italiana Flaminia Catteruccia ha scoperto che se si trattano le zanzariere con un comune farmaco antimalarico gli insetti non sviluppano il Plasmodium falciparum, il parassita che causa la malaria nell’uomo.
“Facciamo molti studi in Africa, dove vediamo l’incredibile livello di resistenza agli insetticidi utilizzati sulle zanzariere – spiega Catteruccia-. In molte regioni Africane, le zanzare non vengono uccise nemmeno da concentrazioni 5 volte più’ abbondanti di quelle che dovrebbero annientarle. Eliminando i parassiti della malaria nella zanzara possiamo aggirare questa resistenza e prevenire efficacemente la trasmissione della malattia. È un’idea semplice, ma innovativa”.
«Come le zanzare diventano resistenti agli insetticidi, anche i parassiti possono diventare resistenti ai farmaci- sottolinea la professoressa Catteruccia-. Usare lo stesso farmaco per uccidere i parassiti sia nell’uomo che nella zanzara potrebbe aumentare il rischio di resistenza alla terapia, mettendo a rischio le cure antimalariche”.
Per evitare che questo accada, risulta indispensabile ragionare su combinazioni di farmaci diversi nell’uomo e nella zanzara, in modo da accerchiare il parassita.
“Se la strategia si dimostrerà valida, si potrebbe immaginare di sostituire gli insetticidi, tossici per l’uomo e per l’ambiente, con farmaci che uccidano selettivamente il parassita, senza danneggiare zanzara e habitat ecologico, e che siano sicuri per le persone che dormono sotto le zanzariere”, continua la scienziata.
Nella ricerca sono state usate zanzariere trattate con atovaquone, un farmaco antimalarico, a cui sono state esposte zanzare che subito prima o durante il contatto con la zanzariera sono state infettate con il plasmodio.
L’indagine ha rilevato che lo sviluppo del parassita era completamente bloccato anche con una bassa concentrazione del farmaco e anche quando le zanzare erano esposte per appena sei minuti.
“Lo studio – conclude Catteruccia – apre la strada ad una possibile nuova strategia contro una malattia che uccide nel mondo oltre 400 mila persone l’anno”.